di Maria Carmen Consolini
Pubblicata il: 14 Aprile 2015
Riteniamo utile e interessante per i nostri lettori riprendere l’argomento già ottimamente affrontato nell’ultimo numero di Pietra su pietra da Angelo del Vescovo, cioè quello della tassazione dei canoni di locazione per gli immobili ad uso diverso dall’abitativo (negozi, capannoni e simili), anche in caso di mancata percezione degli affitti. Questo infatti è un argomento molto importante (e assai spinoso) per i proprietari di immobili ad uso commerciale, e lo sarà fino a quando non verrà approvata una norma di legge analoga a quella ora vigente per gli usi abitativi (art. 8, comma 5, L. 431/’98), la quale (modificando l’art.23 D.P.R 22.12.1986 N.917) prevede l’esonero dalla tassazione dei canoni non percepiti in caso di emissione del provvedimento di convalida di sfratto. Ma fino a quando non otterremo, cosa che chiediamo da sempre e non ci stancheremo mai di chiedere, l’estensione anche agli usi non abitativi di tale sgravio, è necessario trovare soluzioni alternative per ottenere un analogo risultato. Nell’articolo succitato Del Vescovo richiama alcune sentenze emesse recentemente da diverse Commissioni tributarie provinciali (Latina, Bergamo e Reggio Emilia), favorevoli ai proprietari. Ad esse possiamo aggiungere l’altrettanto recente sentenza della Commissione tributaria provinciale di Brescia (sez. V 4.04.2014 n. 365). Ma cosa dicono, in soldoni, queste sentenze? In buona sostanza dicono che il contribuente non è tenuto a dichiarare i canoni non percepiti una volta che si è verificata la risoluzione del contratto. E ciò, non solo nel caso in cui la risoluzione sia stata dichiarata da un Tribunale, ma anche nel caso in cui la risoluzione si sia verificata di diritto. Queste sentenze si basano su un’importante precedente: la sentenza della Corte Costituzionale n. 864 del 26.07.2000, con la quale la Corte era già intervenuta sull’argomento. Pur non avendo effetti vincolanti in quanto sentenza “interpretativa”, la sentenza di cui sopra afferma un principio molto importante e tuttora valido: la risoluzione del contratto, per qualsiasi motivo avvenga, comporta che i canoni di locazione non percepiti non vengano tassati (dal momento della risoluzione) e che la tassazione debba essere fatta sulla base della sola rendita catastale; e inoltre che, anche nel caso gli stessi dovessero essere successivamente percepiti dal locatore, non potranno essere assoggettati a tassazione, avendo essi natura risarcitoria (art.1591 c.c.) e non reddituale. Scrive infatti la Corte: “il riferimento al canone di locazione (anziché alla rendita catastale) (ai fini della tassazione n.d.r.) potrà operare nel tempo solo fin quando risulterà in vita un contratto di locazione e quindi sarà dovuto un canone di locazione in senso tecnico. Quando invece la locazione (rapporto contrattuale) sia cessata per scadenza del termine (art.1596 c.c.) e il locatore pretenda la restituzione (del bene n.d.r)… ovvero quando si sia verificata una qualsiasi causa di risoluzione del contratto, ivi comprese quelle di inadempimento in presenza di clausola risolutiva espressa e di dichiarazione di avvalersi della clausola (art.1456 c.c.), o di risoluzione a seguito di diffida ad adempiere (art.1454 c.c.), tale riferimento al reddito locativo non sarà più praticabile, tornando in vigore la regola generale (cioè quella della rendita catastale n.d.r.)”. Il giudice costituzionale suggerisce quindi al locatore, in caso di morosità, di risolvere il contratto di locazione comunicando al conduttore di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa prevista nel contratto in caso di inadempimento dell’inquilino, ai sensi dell’art.1456 del codice civile, oppure una diffida ad adempiere ai sensi dell’art.1454 c.c.; ciò indipendentemente dal fatto che sia stata intrapresa o meno un’azione giudiziale volta alla convalida di sfratto o alla risoluzione contrattuale per inadempienza del conduttore. Tale risoluzione “immediata” permetterebbe di chiudere subito il contratto presso l’Agenzia delle Entrate, con le conseguenze fiscali di cui sopra. Scrive infatti la Corte che, in tal modo, “tale evento risolutorio (chiusura del contratto presso l’Agenzia delle Entrate n.d.r.) … può concretarsi, seppure per i profili strettamente fiscali, anche attraverso una dichiarazione unilaterale”. Alla luce di queste precisazioni, appare dunque fondamentale inserire nei contratti di locazione la clausola risolutiva espressa ex art. 1456 c.c. in caso di morosità del conduttore, precisando esattamente il numero di canoni non corrisposti e/o gli oneri accessori non versati che determinano l’inadempimento del conduttore. Altrettanto fondamentale è comunicare subito, con lettera racc. a.r., al conduttore inadempiente la volontà di avvalersi della clausola risolutiva espressa. Tale dichiarazione può essere inserita anche nell’atto di intimazione di sfratto, nel qual caso gli effetti risolutori di cui sopra si verificheranno al momento del ricevimento dell’atto da parte del conduttore. Dopodiché provvedere alla chiusura del contratto presso l’Agenzia delle Entrate. Qualora il contratto di locazione, già in essere, non contenga la clausola risolutiva espressa per il caso di morosità, il locatore potrà provocare la risoluzione contrattuale inviando al conduttore moroso una diffida ad adempiere ai sensi dell’art.1454 c.c. Trascorso inutilmente il termine per l’adempimento indicato nella lettera di diffida, si potrà procedere alla chiusura del contratto presso l’ufficio del registro.